NOVITA' IN CUCINA

Sa Piola, tutto il fascino di un’antica osteria

DELICATISSIMO!

Una rubrica di Francesco Fuggetta

francescofuggetta@hotmail.com

Per descrivere “Sa Piola” bisogna partire dal nome: così era chiamata la classica bettola, l’osteria di quartiere, quella che a seconda dei paesi prendeva il nome di su tzilleri o s’offelleria: il vero luogo d’incontro con la cucina povera, semplice. Quel ritrovo accogliente, caratterizzato dal profumo genuino di zuppe e salumi, dove ci si ritrovava per chiacchierare, fra un bicchiere di vino e una partita a carte.
A pochi passi da piazza Yenne, all’ombra delle mura di Castello, c’è l’atmosfera perfetta per far rivivere le vecchie taverne. Una volta oltrepassati i pochi, romantici tavoli all’aperto nei gradini del vicolo Santa Margherita, si fa un salto indietro nel tempo: i due piani del ristorante sono arredati con le vettovaglie che potremmo trovare nelle cucine delle nostre nonne: cestini, pentole, tegami, mestoli, tazze, teiere, fino agli oggetti della tradizione agropastorale dell’Isola, come gli aratri, i telai e le botti.
Ad accoglierci c’è la simpatia del proprietario, Giuseppe Vinci, originario di Macomer, e la gentilezza di suo figlio Gabriele. “Sa Piola”, aperto dal 22 novembre 2008, sta quindi per compiere dieci anni: per gli elevati standard dei prodotti utilizzati e per la sua politica di rispetto della terra, dei suoi frutti e delle sue tradizioni, ha conquistato per due anni consecutivi la Chiocciola d’Oro di Slow Food. Oggi la sua cucina tipica, sia di terra che di mare, viene reinterpretata da Federico Ravot, uno dei migliori chef sardi under 40.
Una cucina che parte necessariamente dalla selezione delle materie prime: prodotti come il Fiore Sardo, il casizolu di Santulussurgiu, il bue rosso del Montiferru, lo zafferano di San Gavino, il cappero di Selargius. E poi le paste secche: lorighittas di Morgongiori, fibaus di Siddi, maccarrones de busa, ciccioneddas, fino al raro e prezioso filindeu, i “fili di Dio”.
Con ingredienti come questi, i piatti sono semplici ma anche molto ricchi: sa petza imbinada (carne di maiale marinata nel vino), su mazzamurru (una zuppa di pane, brodo, pomodoro e pecorino), sa fregula, sa cassola (la tipica zuppa di pesce cagliaritana) o il tiramisù fatto con i savoiardi di Dorgali.
Oggi, però, Federico Ravot ci sorprende, aprendo le danze con un fuori menù a base di carpaccio di ovuli, scaglie di pecorino di Macomer e fichi, seguito da una gustosa burrida accompagnata da un bicchiere di “Karmis” di Contini. Prima di sederci a tavola gli chiedo: “Se dovessi farmi assaggiare uno solo dei tuoi piatti, quale sceglieresti?” Lui, giustamente, esita un po’, ma poi punta sui culurgiones con crema di Fiore Sardo, croccante di pane carasau alle acciughe e al basilico e spugna di prezzemolo (qui la ricetta). Per fortuna ci ha regalato altri piatti straordinari, ma anch’io, a fine cena, avrei scelto quello: gradevole alla vista e ancor più al palato, con il suo gusto intenso.
Non sono da meno le ciccioneddas – il simpatico nome di questi minuscoli malloreddus – al ragù di bue rosso in salsa di pecorino e zafferano: un’esplosione di sapore, un primo importante con il quale sorseggiamo un vino altrettanto importante, il Carignano Riserva “Diavolo Cervo” della cantina Mulleri di Quartucciu. Dal salato al dolce: ma non ancora quello del dessert, bensì quello, equilibrato, della pancia di maiale glassata al mirto, servita con quenelle di patate e cipollotto brasato. Come dessert, invece, scegliamo una panna cotta: banale? Non se è stata fatta con il latte di capra, e se è servita con marmellata di fichi e fichi freschi. Dopo un pranzo così, è impossibile rinunciare a un buon caffè, ed è l’ultima sorpresa di “Sa Piola”: non lo fanno con la macchina da bar, ma con la moka. Proprio come lo preparerebbero le nostre nonne.

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